lunedì 20 maggio 2013

Bastardo che mi rubi il sonno

Bastardo che mi rubi il sonno, se qui con me. Mille passi più lontano, sempre con me. (Casino Royale)

20 maggio
La sera del 19 maggio 2012 andai a letto con un dubbio. Il giorno dopo avrei festeggiato il mio compleanno. Certo, avrebbe piovuto, come sempre del resto quando decidevo di festeggiarlo all’aperto con gli amici ma, soprattutto, non sapevo se offrir loro prosecco o Franciacorta.
Alle 4.03 sciolsi il mio dubbio.
Fui svegliato di soprassalto da un boato. Aprii gli occhi ed era nero, un nero totale. Ok, la vista era fuori uso, dovevo fare affidamento solamente su udito e tatto. Il boato continuava e Cristina, di fianco a me, cominciò ad urlare. Ma non erano vere e proprie urla, no. Era quella voce, la sua voce, quando le cadono tutte le difese. La voce più brutta che io avessi mai potuto sentire ed in quel momento ero più che consapevole che lo fosse, la più brutta. Una voce sfigurata che in un attimo ti fa capire che devi farti forza anche per lei perché lei, in quel momento, è in impasse totale.
Furono secondi, tuttora non so nemmeno quanti, in cui di quel buio totale ricordo solo un assordante bom bom bom. Bom. Bom. Bom. Un gigante che scuoteva la tua casa, quasi volesse sradicarla dal terreno: io me lo sono immaginato così.
Ok, era terremoto. Come non l’avevo mai sentito. Forte, molto forte, stranamente fortissimo. D’istinto mi fiondai sopra Cristina in un impulso naturale di difesa. Le dicevo di stare calma, che sarebbe finito. Ma non finiva, non era come solito, non finiva. In quegli istanti non avevo paura: non era coraggio, era non rendersi conto di cosa stava succedendo. Mi fidavo del tetto sotto cui ero. E, in un certo senso, dovevo fidarmi.
Poi finì.
Quelli successivi furono attimi concitati. Ci alzammo, lei voleva uscire da quella casa. La luce non andava così usai il telefono per farmi strada. Non sapevamo nemmeno l’ora così uscimmo in pigiama, senza occhiali, senza nulla. Non era il compleanno che pensavo.
Ricordo gli allarmi delle case, delle auto, di tutto. Un suono monotono programmato all’infinito. Il cielo era identico a sempre, illuminato solamente dai lampeggianti degli allarmi.
Ricordo che provai sorpresa nel vedere gente smarrita uscire dalle proprie case. Pensai che non stava succedendo una cosa normale, un qualcosa – come dire? – già vissuto e su cui basarti per agire correttamente. Era un evento nuovo, totalmente sconosciuto.  
Io dovevo tornare in casa. Eravamo entrambi senza occhiali - maledetta miopia - e solamente in pigiama. La luce continuava a non funzionare per cui, sempre col telefono, salii le scale e presi le prime cose che mi capitarono tra le mani. Mentre salivo cercavo di illuminarmi intorno per vedere quello che era successo. I libri erano quasi tutti caduti, la cucina era un disastro, vetri dappertutto. Cazzo, pensai: quella era la mia casa. Com’era possibile una cosa così nella mia casa?
La via si era riempita, cominciava ad albeggiare. Il cielo era sempre lo stesso, e la luce di un sole basso ed il passare del tempo rendevano concreto quello che era appena successo: macerie. Le tue macerie. Il centro del tuo paese. Tuo. Non bastò un irrefrenabile moto d’incredulità per far fronte a quello straripante schieramento di concretezza. Ecco cosa accadeva quando non vedevi più le sventure dall'alto del tuo culo al caldo. Accadeva quello. E non c'era altro da dire.
Dormii in auto la notte successiva. Ricordo che pioveva, piovve tutto il giorno. Dopo un terremoto piove sempre, no? Da solo, nell’abitacolo, in un’ora imprecisata di quel 20 maggio, nel giorno del mio compleanno, i vetri appannati, l’umidità devastante, le gambe anchilosate, ancora non mi capacitavo dell’accaduto. Non me ne capacitavo nonostante l’auto continuasse a ballare ad ogni scossa. In quei momenti pensavo a ciò che era ovvio: il terremoto era il nemico perfetto, imbattibile. Un nemico invisibile di cui non potevi prevedere le mosse, solo subirle.

29 maggio
La mattina del 29 maggio ero in ufficio a Modena; erano le 8.58 quando il collega di fronte a me fece una telefonata. Alle 9.00 mi guardò e disse: questo è terremoto? E mise giù il telefono.
Ricordo che mi alzai con una calma inaspettata e mi misi sotto una parete portante. Ero a Modena, a quaranta chilometri da casa mia: quello che si sentiva era nulla a confronto di nove giorni prima. Vedevo gente correre giù per le scale urlando, piangendo. La stessa che i giorni precedenti mi diceva che noi, gente della bassa, dovevamo avere il coraggio di tornare in casa perché in questi casi bisogna tirare fuori le palle: vaffanculo. Con tutto il cuore.
Anche quella fu infinita, lunghissima. Tentai di chiamare ma niente, tutto fuori uso. Uscii dall’ufficio e mi diressi verso casa continuando inutilmente a cercare di mettermi in contatto. Nel frattempo per radio sentivo che l’epicentro era a Medolla, che erano crollate delle fabbriche, che c’era gente sotto. Cristina era al lavoro. A Medolla.
Apnea.
Non saprei descrivere quegli attimi. Sono attimi in cui la razionalità desiste ma non c’era rabbia al suo posto. No, non c’era nulla. Una sola, lunghissima, infinita, apnea. Pensai alle cose più brutte. Poi pensai che non dovevo pensare alle cose più brutte. Acceleravo. Poi accostavo per lasciar passare i mezzi di soccorso. Acceleravo. Accostavo. Dovevo raggiungere il prima possibile l’azienda di Cristina. Apnea. Acceleravo. Accostavo. Una chiamata, un numero fisso sconosciuto: Cristina, dal lavoro, stava bene. Era viva. Non avrei mai pensato di dire a Cristina: sei viva! Sei. Viva.
Accostai di nuovo, per me. Ricordo solo che ripresi tanto di quel fiato in corpo che i miei polmoni tornarono a vivere.

Giugno
Il giugno 2012 fu un giugno snervante. Il sole e l’estate incalzante si contrapponevano alla desolazione delle macerie in un ossimoro annichilente. Mi svegliavo la mattina nell’umidità della tenda, facevo colazione sotto la tettoia che avevamo allestito a soggiorno e partivo per Modena. Il mondo cambiava. Tutti i giorni: desolazione-normalità-desolazione.
Entrare in casa a fare la doccia significava preparare i vestiti pronti già per essere infilati, minimizzare il più possibile il tempo di permanenza sotto l’acqua, soprattutto per il lavaggio dei capelli che poi se hai il sapone davanti agli occhi e viene una scossa non riesci ad uscire, pensare alla via migliore per scappare nel caso una scossa mi avesse colto in quell’attimo. La sfida con me stesso, ogni sera, era rimanere più tempo sotto la doccia.
Bestemmiai come non mai in quel periodo. Ma ormai anche le bestemmie avevano perso quel gusto di proibito. Anche inventarne di nuove non dava più soddisfazione. Ormai la bestemmia era scontata.
Ogni persona reagì nel suo modo e molte persone reagirono in un modo inaspettato. Chi si era sempre dimostrato forte spesso vacillava, l’impotenza verso il terremoto atrofizzava la loro audacia. Le persone erano all’erta, all’erta costante. Personalmente non ebbi mai paura per me stesso bensì per gli altri.  Non per una spiccata dose di ardimento, sia chiaro, quanto per una forma tremenda – qualcuno potrebbe definirla egoista – di fastidio nel caso fosse successo qualcosa ad uno dei miei cari.
La “gente”: tutti si ritrovarono geologi, geotecnici, strutturisti, ingegneri, psicologi, psichiatri, economi, fisici. Tutti esperti all’opera. Un’ignoranza dilagante, sconcertante, svilente. “Tra mezz’ora arriva una scossa e sarà ancora più grande” urlavano a gran voce: teste di cazzo, non avrò mai sufficienti epiteti per apostrofarvi.

Luglio
Tornai definitivamente a dormire nella mia casa il 25 giugno.
Il primo luglio era appena terminata la finale degli Europei: 3,2 Richter. Cristina non ne volle sapere: tenda. Io stetti male, vomitai tutta la notte. Crampi allo stomaco da rotolarmi in terra dal dolore, il capolavoro della somatizzazione. Come ritornare al punto di inizio.

Sempre
Da quel primo luglio ce ne furono altre di scosse. Ma da quel giorno non ho più abbandonato il mio letto. E al boato di una scossa mi sveglio bestemmiando, poi mi corico e ricomincio a dormire. Perché la paura ha un suo suono che ognuno di noi porta con sé. Per me la paura è quel boato indefinito che per sempre porterò in memoria. Ma cerco di non pensarci.
Certe cose lasciano segni indelebili. Io me ne accorgo, per esempio, quando sposto inconsciamente una bottiglia dal bordo al centro del tavolo e penso: sia mai che venga un terremoto, così non dovrebbe cadere in terra.